Famiglia VILARDO


BERARDO

VILARDO, BERARDO: assieme a Berardi, Belardi, Verardi, Vilardi, (cognome diffuso nell'Italia del nord, del centro, in Puglia e Calabria) deriva dal nome proprio germanico Berardo di tradizione franca, già attestato nei documenti dall'882, data in cui a Piacenza è registrato un Berardus Franco. Composto da Beran o bera, orso e hardu, duro, forte, coraggioso, questo nome celebrava la la forza selvaggia e l'indomito ardimento dell'orso, uno degli animali sacri agli dei germanici. Beraldo ha in comune con Berardo il primo elemento ma si differenzia nel secondo (Walda, potente, signore, capo, comandante), divenendo sinonimo di condottiero dell'esercito o generale di schiere armate. Grande importanza avrà, questo nome, nella storia Marsicana, nel quadro dei numerosi conflitti che vedranno, di volta in volta, lo scontro fra Longobardi e Franchi, fra Normanni e Conti dei Marsi, fra Svevi ed Angioini, ecc. A tale proposito si possono ricordare gli importanti avvenimenti bellici del IX e X secolo che interessarono la valle Roveto e, sicuramente, l'area avezzanese con i soliti strascichi di lutto e terrore: il passaggio nei Piani Palentini e Val Roveto dell'esercito imperiale di Ludovico II diretto a Montecassino nel 866 per sventare la minaccia saracena, quando per Sora entrò sui limiti settentrionali del ducato beneventano " Beneventani fines per Soram ingreditur " (ERCH., c. 32, 244); nel 880 con il passaggio per la Val Roveto, Piani Palentini ed area avezzanese degli Agareni (Saraceni) provenienti dalle basi sulla foce del Liri-Garigliano, che raggiunsero il Fucino, distrussero il monastero celanese di S. Vittorino in Telle di Celano (Ugo e Lotario, 173, 8) e depredarono il celebre monastero di S. Maria in Apinianico di Pescina, uccidendo tutti i monaci ed incendiando lo stesso monastero (Chron.Vult., I, 369, 20); nel 937 con l'invasione della Marsica da parte di una banda di predoni Ungari che, dopo aver devastato il circondario di Capua, tramite la Val Roveto, raggiunsero il Fucino dove furono sconfitti e messi in fuga, probabilmente vicino Forca Caruso, dalle truppe congiunte dei Marsi e Peligni (Chron.Mon.Casin., I, 55, 140-141).Con la conquista franca del Ducato di Spoleto, Nell'attuale località "Fonte-Muscino" verso Caruscino, sopra gli importanti insediamenti preistorici dell'età dei Metalli (DEL BOVE ORLANDI 1999, 6). Di essa abbiamo notizie già dal 781 e pare che se né possa far risalire la fondazione entro il secolo VII. È compresa nei diplomi imperiali di Carlo Magno del 787, di Ottone III del 998 e Lotario III di Suplimburgo del 1137 (PIETRANTONIO 1988, n. 13, 89-90). In questi anni, una famiglia franca provenzale creava le premesse per la nascita di un potere comitale nella Marsica, i famosi "Conti dei Marsi" che domineranno l'area dal X al XII secolo. Fu, infatti, nel 926 con la discesa in Italia di Ugo d'Arles per cingere la corona, che arrivarono con lui in Marsia i conti Attone burgundo e suo zio materno il provenzale Berardo detto il Francisco, che ottennero insieme l'investitura comitale del "paese dei Marsi", termine che ancora designava l'Abruzzo nella quasi totalità. Il burgundo Attone ebbe i comitati Pennese e Teatino, mentre il franco Berardo ebbe quelli Marsicano, Reatino, Amiternino, Furconese e Valvensi: " Cum hoc Ugóne venit Italiam Azzo comes Burgundie, avunculus Berardi illius, qui cognominatus Franciscus, a quo videlicet Marsorum comites procreati sunt." (Chron.Mon.Casin, I, 61, 153-154). Da questo "Berardo il Francisco" risiedente a Rieti con la longobarda moglie Doda, avrà origine la stirpe dei Conti dei Marsi detti "Berardi" da cui sul finire del X secolo nascerà il ramo marsicano (SENNIS 1994). Fra tutti i personaggi che per qualche motivo si possono annoverare intorno alla storia e alla figura di Federico II, un posto di rilievo, se non preminente, spetta di sicuro al suo fedelissimo BERARDO di CASTACCA. Berardo, prete trentacinquenne, che conosceva molto bene i genitori di Federico, (anzi s'era adoperato per una degna sepoltura di Enrico VI dopo la sua morte avvenuta a Messina), lo accompagnò ininterrottamente dalla sua nascita fino alla morte, nella buona e nella cattiva sorte, dividendone onori e gloria, ma anche difficoltà, scomuniche e pericoli di vario genere. In pratica, vivendo costantemente alla corte dell'Imperatore, fu dispensatore di consigli e suggerimenti verso Federico, al punto d'essere considerato come un secondo padre. La sua considerazione verso l'Imperatore fu addirittura superiore a quella che avrebbe dovuto avere verso il Papa, essendo vescovo della chiesa, e quindi arcivescovo. Lo stesso Federico ebbe a dichiarare che: "… egli in ogni circostanza fu al nostro fianco e molto sopportò per noi". Berardo fu tra i dignitari e familiares che assistettero Federico in punto di morte, che gli impartì l'estrema unzione, e che in precedenza aveva unito in matrimonio Federico con la dolce Bianca Lancia morente. Federico II ammalato e la sua corte è al suo capezzale, da un miniatura medievale. Trasportato a Palermo, Federico venne deposto nel sarcofago di porfido rosso nel Duomo, benedetto dal fraterno amico Berardo, secondo la cronaca di Francesco Pipino: "Per manus Berardi Panormitani archiepiscopi in majori Panormitana ecclesia cum divis Augustis ejus parentibus, sicut disposuerat, honorifice tumulatum est corpus ejusdem". Pare sia stato lui l'artefice dell'epigrafe (alcuni parlano invece di un certo chierico Trontano) apposta alla sua tomba, che così recita: Si probitas, sensus, virtutum gratia, census, Nobilitas orti possent resistere morti, Non foret extinctus Fredericus, qui jacet intus. (Se l'onestà, l'intelligenza, le più alte virtù, la saggezza, la buona reputazione e la nobiltà del sangue potessero resistere alla morte, Federico, che qui riposa, non sarebbe morto) vedi nota Durante la minorità di Federico, il Papa Innocenzo III lo inserì nel collegio di tutela, e da lì evidentemente nacque l'afflato che l'avrebbe portato a divenire uno dei suoi più fedeli fautori e sostenitori. Berardo nel 1207 fu nominato arcivescovo di Bari, e appoggiò l'Imperatore nella strenua lotta contro Ottone IV. (La posizione di Ottone, sorretto dalle forze guelfe e dall'Inghilterra, era molto forte, e la città di Costanza già si apprestava a riceverlo con tutti gli onori, quando giunse in anticipo Federico ed il suo seguito, trovando serrate le porte della città. Solo la lettura, da parte del vescovo Berardo, del decreto di scomunica papale verso Ottone, riuscì a fare aprire le porte della città ed a farlo entrare trionfalmente, lasciando scornato Ottone, giunto poche ore dopo!). La sua viscerale lealtà fu lodata persino da Innocenzo III, che in quel periodo andava d'amore e d'accordo con Federico. In quegli anni le cronache lo vedono in primo piano: accompagna Federico nel suo più che avventuroso viaggio in Germania, nel 1215 sostiene i diritti di Federico contro Ottone nel Concilio Lateranense, accompagna Costanza e suo figlio in Lombardia, nel 1216. Nel 1214 era stato nominato arcivescovo di Palermo. Grande rilievo ebbe nei rapporti di Federico con Malik al-Kamil, sultano d'Egitto. Infatti fu suo ambasciatore alla corte del sultano, dove trattò i preliminari per la Crociata, e portò in dono all'Imperatore il famoso elefante (da Federico chiamato amichevolmente 'Malik') che scorrazzò per anni per l'Italia, incutendo timore nella popolazione che mai aveva visto un simile bestione. Manco a dirlo, accompagnò Federico nella sua crociata, e di ritorno partecipò ai negoziati per la pace di San Germano. Nel 1235 Federico lo nominò membro del collegio dei "familiares", e seguì l'Imperatore in tutte le campagne di guerra. Nonostante la sua incondizionata devozione verso Federico, la Sede Apostolica non cessò di onorarlo della massima stima, per la sua pacatezza e irreprensibilità: ruolo che lo rendevano particolarmente adatto alla mediazione. Ragion per cui, nel 1243 Federico lo incaricò di recarsi presso il Papa, per discutere, da buon oratore, la pace con la chiesa; ma Innocenzo IV non lo volle neppure ricevere in quanto "scomunicato" per avere seguito e sostenuto un imperatore a sua volta estromesso dalla chiesa. In seguito venne assolto dalla scomunica, ma solo per portare avanti le trattative (Che commercio veniva fatto della scomunica!). Dopo la deposizione nel Concilio di Lione, Federico era seriamente preoccupato, e per attenuare gli effetti della scomunica, fece professione di fede nelle mani dell'arcivescovo di Palermo, Berardo, del vescovo di Pavia ed all'abate di Montecassino, che, anche se a lui politicamente vicini, erano pur sempre autorità ecclesiastiche di rilievo: e questi, infatti, lo dichiararono "perfettamente ortodosso". Il suo più grande merito fu d'avere presentato a Federico, "l'affascinante" Pier delle Vigne che, come sappiamo, fu il braccio destro dell'Imperatore in fatto di dottrina del diritto. E non poteva mancare il lato amoroso! Si dice, infatti, che Federico sia stato l'amante di una nipote di Berardo, una certa Manna. Fedele fino in fondo all'Imperatore, non rispose neppure alle richieste di Innocenzo IV che, tentando di riportare la chiesa del regno di Sicilia sotto l'obbedienza di Roma, cercava di trarlo dalla sua parte, a suo dire, per salvarlo dalle pene dell'inferno, data la sua veneranda età. La morte infatti lo colse, ultraottantenne, l'otto settembre del 1252, risparmiando al Papa una sicura e cocente delusione. Nota: l'epitaffio sopra citato ora non esistente più, fu probabilmente danneggiato e tolto dalla tomba da quello stesso canonico Ruggero Paruta, che nel 1538 compose anche i versi per i sepolcri di Enrico VI e Costanza d'Altavilla. Qui di seguito riportiamo il testo dell'epitaffio presente attualmente sulla tomba di Federico II: Qui mare, qui terras, populos et regna subegit, Caesareum fregit subito mors improba nomen, Hic jacet, ut cernis, Fredericus in orbe Secundus, Quem lapis hic, totus cui mundus paruit, arcet. Come vedi, qui giace Federico Secondo, che, per terra e per mare, sottomise popoli e regni, un'improvvisa improba morte spezzò il nome di Cesare. Questa tomba racchiude colui al quale obbedì il mondo intero. Copyright ©2002 Federico Messana Torna a personaggi Home page Vita di San Berardo Vescovo La diocesi e la Cattedrale di Teramo sono dedicati a San Berardo, grande figura storica che rappresenta il punto di riferimento religioso per ogni teramano e la base della storia della citta' che lo considera, in un certo senso, il fondatore spirituale della comunita', tanto da mitizzarne la vita e renderla argomento di tre sacre leggende che dal 1200, fino ai nostri giorni ne ricordano e magnificano la vicenda umana e spirituale. Lasciati gli agi della casa paterna a Pagliara, i cui resti sono ancora visibili vicino Castelli, Berardo cambio' gli onori comitali per quelli dell'abito benedettino che indosso' a Montecassino, dove resto' per tutto il corso degli studi, amato e apprezzato per fervore e gentilezza d'animo. Presi gli ordini, ando' a vivere nel monastero di San Giovanni in Venere, dove, come dice la leggenda "crebbe in perfezione e santita'", tanto che il popolo di Teramo, nel 1115, gli offerse la cattedra episcopale e imploro' fino a quando il Santo, schivo di onori terreni, accetto' per spirito di obbedienza verso il Papa e verso il volere dei suoi concittadini. Svolse il suo ministero con zelo, giustizia e pieta' fino al 18 dicembre del 1122, giorno della sua morte. Gia' in vita il Santo vescovo aveva compiuto, come narra la leggenda, molti miracoli, ma presto il suo sepolcro divenne meta di pellegrini che lo invocavano come protettore e taumaturgo. Risano' molti malati e soccorse molti infelici, difese prodigiosamente la citta' nel 1521, contro l'assedio degli Acquaviva, apparendo insieme alla Vergine sulle mura di cinta. E tanto i teramani lo ritennero loro salvatore che invocando il nome di San Berardo, nel 1798, si opposero all'invasione francese. Il suo corpo riposa nella cattedrale, costruita nel XII secolo e la sua festa liturgica cade il 19 dicembre, quando dopo un solenne pontificale il vescovo benedice i Teramani con le sue reliquie. Un tempo i canonici, in quell'occasione, leggevano dall'ambone la Legenda maior, ricordando a tutti la vita e i miracoli del Santo patrono e la giornata si chiudeva con tornei, giostre e sbandieratori. E' stato l'amore per le tradizioni .

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