Famiglia PICCO
PICCO, PICCA, PICCONE: potrebbe derivare dal termine latino “Picca”, “Punta” o anche da soprannomi legati alla bassa statura o all'essere un soldato portatore di picca (sorta d'arma tardo latina). Potrebbe derivare dalla presenza di una picca nel blasone di famiglia, ma può anche essere stato originato da un soprannome legato ad episodi o all'uso di una picca o piccone.
L'origine geografica di questa famiglia è friulana, e precisamente di Latisana in provincia di Udine.
Già fin dalla metà del secolo XIX compare nella nostra provincia a S. Terenzo al mare, un certo Achille Picco, qui trasferitosi avendo trovato occupazione in qualità di meccanico presso l'arsenale di La Spezia.
Nell'ameno borgo della costiera lericina incontra Marina Manfredini con la quale si sposa e che gli darà tre figli maschi: Antonio, Annibale, ed un terzo di cui nel tempo si è perso il nome, ma che viene ricordato per la tragica morte che lo coglie in tenera età, a seguito di annegamento in mare per congestione.
La storia di questa famiglia è punteggiata da una serie di avvenimenti assai avventurosi e spesso dolorosi dei quali riportiamo qualche ricordo.
Antonio, primogenito, all'età di 13 anni avverte un'incontenibile smania di avventura e all'improvviso parte al seguito di un circo equestre che lo condurrà di lì a poco in Francia, dove rimarrà per alcuni anni senza più dare notizie di sé, e ancor meno senza riceverne dalla famiglia che nel frattempo era stata colpita da due avvenimenti straordinari: la nascita del terzo fratellino Annibale nel 1886 e la contemporanea morte della madre Marina, deceduta per parto. Solo dopo molti anni, Antonio, raggiunta l'età matura, ritorna in Italia stabilendosi a Sestri Ponente dove avvia una fiorente attività commerciale per la fornitura di vari articoli merceologici alle navi.
Intanto il padre Achille, restato anzitempo vedovo, viene richiamato per lavoro a Taranto dove si trasferisce affidando il piccolo Annibale alle cure di una famiglia di S. Terenzo (certi Bedini) formata da ben 8 figli di cui 3 femmine e dal padre che presto resterà anche lui vedovo.
Questa famiglia già così numerosa ed appesantita dall'arrivo di un altro membro (accettato peraltro con grande spirito di solidarietà) non trova sufficiente sostentamento nel piccolo borgo marinaro e decide di trasferirsi a Castelnuovo Magra dove, in località “Ponticello” alle falde della frazione di Marciano, conduce a mezzadria un ampio appezzamento di terra dei Fabbricotti di Carrara.
Ma un amaro destino attende questo nucleo famigliare: infatti il padre, forse preso dalla disperazione per le difficili condizioni in cui versa la famiglia, si fa vincere dall'istinto di evasione, ed un giorno, improvvisamente, aggioga i due buoi al carro sul quale carica le poche masserizie di cui è in possesso e, nonostante i disperati inviti dei famigliari e dei vicini a desistere dall'insana iniziativa, parte per destinazione ignota abbandonando tutti.
I 9 ragazzi diventati ormai grandicelli, si trasferiscono nella vicina località di Robino, attivandosi ciascuno per trovare una qualche occupazione personale.
A questo punto ci interesseremo esclusivamente della storia di Annibale essendo, l'unica che ci siamo prefissati di raccontare in questo capitolo.
Dobbiamo allora ricordare che il padre Achille, trasferitosi a Taranto dopo l'abbandono del figlio, si era risposato, ritirandosi successivamente, all'insaputa di Annibale, nella terra di origine dei propri avi, cioè a Latisana nel Friuli. Questa annotazione è non soltanto doverosa per rispettare i fatti, ma anche interessante perché il destino farà ancora incontrare padre e figlio in circostanze assai singolari, come vedremo in seguito.
Dunque Annibale a 13 anni trova occupazione come operaio presso le fornaci Saudino di Sarzana, con la paga giornaliera di lire 1,50 bastante solo per la sopravvivenza nei periodi di lavoro che tuttavia vengono interrotti d'inverno, quando il gelo impedisce l'impasto dell'argilla per la fabbricazione manuale dei laterizi. Ma la volontà non fa difetto al giovane Annibale il quale integra periodicamente l'attività di fornaciaio con quella di frantoiano presso il frantoio Dogliotti.
Annibale si sposa all'età di 22 anni, nel 1908, con Bacigalupi Orsolina; nello stesso anno, essendo stato richiamato al servizio di leva, partecipa con i suoi commilitoni alla campagna di aiuti verso la popolazione di Messina colpita dal disastroso terremoto.
Questo nuovo ruolo di “soldato” gli fa conoscere da vicino i tragici avvenimenti che accompagnano la vita italiana in quel periodo: nel 1911 partecipa alla guerra di Libia; nel 1915 a quella mondiale, rimanendo coinvolto nella tremenda ritirata di Caporetto del 1917.
Questo tragico avvenimento segna, per la storia che andiamo raccontando, un momento assai importante in relazione al preannunciato incontro fra Annibale e il padre Achille.
Infatti costui, in quel periodo abitante a Latisana nel Friuli con la figlia nata dal secondo matrimonio, è costretto a sfollare dalla zona del fronte invasa dalle truppe austriache, cercando riparo nella lontana Toscana.
La figlia, incinta di 9 mesi, giunta a Parma, deve ricoverarsi in ospedale per sopravvenuto parto precipitoso, mentre il padre raggiunge la città di Pietrasanta.
La giovane puerpera in passato aveva mantenuto contatti epistolari col fratellastro Antonio il quale l'aveva informata dell'esistenza dell'altro fratello Annibale, vivente in Castelnuovo Magra. La donna, giunta a sua volta a Pietrasanta, mette al corrente il padre di questa notizia tenutale nascosta per molti anni, inducendolo ad attivarsi per un imminente incontro col di lui figlio; contemporaneamente anche Annibale viene informato di tutti questi avvenimenti e finalmente i due protagonisti di questa triste storia si incontrano, lasciando però poco spazio all'emozione: infatti ambedue avvertono che una nuova realtà e nuovi affetti circondano le loro vite, dopo una così lunga separazione, aggravata da assoluto silenzio.
E così padre e figlio si separano ancora, ma questa volta definitivamente. Achille tornerà nel Nord Italia e Annibale vivrà per molti anni con la moglie Orsolina e
il figlio Araldo (nato nel 1913) a Castelnuovo dove si spegnerà nel 1970. Poco dopo il suo decesso riceve l'onorificenza di Cavaliere di Vittorio Veneto per la sua partecipazione alla Iº guerra mondiale.
Non meno ricca di avventure appare la vita di Araldo (“Fiorino”).
Ancora giovanissimo collabora con Tendola Luigi (“Tomelòn”) nell'attività di commercio del latte, dal 1927 al 1932. In tale periodo consegue la patente di guida che gli servirà poi durante tutta la vita militare. Infatti richiamato sotto le armi farà parte del corpo degli autieri,
e ciò gli fornirà l'occasione per vivere momenti di intensa avventura.
Allo scoppio della guerra d'Abissinia, nel 1936, presta servizio in Africa nei reparti motorizzati per il trasporto di munizioni e viveri. Congedato, lavora alle dipendenze del comune di Castelnuovo per il nuovo tracciato della via carrozzabile verso il capoluogo; durante le pause di lavoro incontra spesso la giovane Cedro Emilia, allora diciottenne, con la quale nasce subito una calda simpatia che presto si trasforma in amore coronato dal matrimonio che sarà celebrato dopo 4 anni di fidanzamento nel 1942.
Pare che il destino di Araldo si apra verso orizzonti più sereni dopo le amare esperienze della guerra d'Africa. Infatti il nostro protagonista trova un lavoro stabile presso i cantieri del Muggiano, che sembra promettere un futuro tranquillo; ma ahimè: nel 1939 Araldo, all'età di 26 anni, viene ancora richiamato sotto le armi e dopo un “congedo illimitato” che dura solo pochi mesi è costretto ancora una volta a indossare la divisa grigio-verde che lo vede presente in molte città italiane nel corpo dei carristi: dapprima a Bracciano, poi a Nettuno, quindi a Pordenone e ancora a Nettuno.
Nel corso di una breve licenza ha finalmente modo di sposare la sua amata Emilia. Questa parentesi di serenità si chiude molto presto. Infatti il giovane sposo a soli 20 giorni dal matrimonio deve ripresentarsi sul fronte africano. Si imbarca a Taranto il 23 luglio del 1942. Dopo 1 giorno di navigazione, il mattino del 24 luglio alle 7,30 il convoglio viene individuato da una squadriglia di caccia bombardieri inglesi che dopo un furente attacco con cannoncini e bombe hanno la meglio sulla nave da trasporto provocandone l'affondamento. Araldo, benché ferito ad un piede, riesce a salvarsi grazie all'uso di una provvidenziale camera d'aria di un camion portata da casa in vista della perigliosa attraversata.
Recuperato da una nave italiana viene trasferito in Grecia a Patrasso dove viene curato in ospedale; ma qui contrae la malaria dalla quale riesce a guarire, grazie all'assunzione di forti dosi di chinino che tuttavia non lo renderanno immune da preoccupanti recidive in avvenire.
Viene dimesso e può raggiungere Trieste a bordo di una tradotta militare con la quale attraversa tutta la Iugoslavia in condizioni di viaggio veramente disastrose, che gli aggravano il già precario stato di salute.
Una volta ristabilitosi riceve ancora l'ordine di ripartire per l'Africa per ricongiungersi al proprio reparto giuntovi fortunosamente, se pur decimato, dopo quel drammatico naufragio.
Per l'occasione viene imbarcato a Lecce con altri commilitoni su un aereo militare, il 6 ottobre del 1942.
Per prendere coraggio, prima di affrontare la pericolosa trasvolata, Araldo assume un'intera gavetta di caffè nero che però durante il volo gli procurerà un forte stimolo urinario. Il velivolo non è dotato di servizi igienici e la durata del viaggio è molto più lunga del previsto, a causa di un forte temporale su Berna che costringe l'aereo a dirottare verso la pista di Tobruk, assai più lontana. Il povero Araldo, costretto a liberarsi dall'abbondante liquido che gli comprime la vescica, non trova miglior soluzione che utilizzare un imbuto passatogli dal mitragliere di bordo, allagando il pavimento. Questo fatto, dopo lo sbarco, gli costa la minaccia di morte di un capitano che aveva interpretato l'esito di quella insopprimibile azione fisiologica come un grave atto di scherno.
Gli avvenimenti in Africa volgono al peggio e Araldo si trova al centro della inarrestabile avanzata del fronte alleato. Infatti il 23 ottobre del 1942, dopo un intenso cannoneggiamento contro le nostre linee difensive, gli Inglesi sfondano il fronte.
Araldo, caduto prigioniero, viene trasferito dapprima ad Alessandria e poi internato in un campo di concentramento in una zona centrale dell'Egitto.
Soltanto nel 1946 il giorno 13 aprile verrà rimpatriato con l'incrociatore Montecuccoli e raggiungerà la propria famiglia a Castelnuovo il 23 luglio dello stesso anno. Gli attacchi di malaria che lo avevano perseguitato anche durante la prigionia in Egitto lo costringono al ricovero in ospedale a Firenze per un lungo periodo di cura. Finalmente ristabilitosi, può tornare definitivamente alla sua vecchia occupazione nei cantieri Muggiano di La Spezia dove rimarrà in attività fino all'età della pensione in qualità di “trattorista”.
Oggi vive a Molicciara con la moglie, contornato dall'affetto della figlia Anna Maria nata nel 1947. Essa gli ha dato due nipoti: Marzio Favini, assessore del comune di Castelnuovo Magra, e Cristina, laureata in scienze bancarie.
Anche da parte del figlio Carlo Achille (sposato con Bernardini Stefania) ha avuto due nipoti: Michele e Cristina. Tutti rivivono i ricordi del padre e nonno, riportati alla luce dalle nebbie di un lontano passato degno di essere raccontato.
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